IL CASO PIOMBINO: UN ILLECITO CHE FA DISCUTERE

 

A fine luglio 1956, nel pieno dell’ennesima crisi societaria (con Albonetti dimissionario e la società commissariata) cominciano a rimbalzare inquietanti notizie provenienti dalla Toscana. In realtà, già da qualche mese era noto che una denuncia anonima per illecito sportivo era stata presentata contro il Piacenza in occasione della partita vinta per 2-1 sul campo del fanalino di coda Piombino, il 29 aprile 1956. Lo stesso presidente Albonetti dichiara a La Stampa di Torino di essere al corrente della denuncia, ma anche di essere “assolutamente tranquillo sull’esito dell’indagine”. In particolare, si fa risalire l’equivoco al fatto che in quella stagione milita nel Piacenza il mediano Giuseppe Gaggiotti, il cui fratello Eugenio era noto negli ambienti federali come “accomodatore” di partite e di risultati; proprio in quei giorni, inoltre, il suo nome era salito alla ribalta nell’ambito di un analogo caso di illecito riguardante il Genoa.

Al Piacenza, ufficialmente informato dell’indagine solo il 31 luglio, vengono concessi appena due giorni di tempo per preparare il memoriale difensivo, contro un’accusa precisa nella sostanza ma fumosa nelle circostanze, e oltretutto senza che la difesa conosca nel dettaglio le testimonianze portate a sostegno dell’accusa stessa.

 

Il 3 agosto 1956 il Piacenza viene deferito alla Lega Nazionale dalla Commissione di controllo della Federcalcio, sulla base della denuncia del Piombino e in particolare del suo portiere, Aldo Barocelli. Secondo la versione del Barocelli, il 24 aprile sarebbe stato avvicinato da Alberto Maccaferri, concittadino e amico di Eugenio Gaggiotti, che gli avrebbe offerto un milione di lire per favorire la vittoria del Piacenza. Gaggiotti ha frequentato gli ambienti sportivi di Piacenza e alcuni dirigenti della società, in particolare (come emergerà dall’indagine) come mediatore per l’ingaggio dell’attaccante Alvaro Zian, e in queste occasioni si sarebbero incontrati Gaggiotti, Albonetti e lo stesso Zian. Inoltre Maccaferri, stando alla denuncia, avrebbe agito “incaricato da un signore di Piacenza”. La connessione non è chiara, e lo stesso comunicato che avvia l’indagine lo precisa: “pur non essendo stata raggiunta la prova che il Maccaferri abbia agito per incarico del sig. Gaggiotti e che questi a sua volta abbia ordito la frode per esplicito mandato dei rappresentanti del Piacenza F.C., le risultanze delle indagini inducono tuttavia a ritenere che nè il Maccaferri nè il Gaggiotti abbiano agito di propria iniziativa. In ogni caso, l’eventuale compimento dell’illecito sarebbe andato a vantaggio del Piacenza F.C.”. Da una parte, infatti, lo Zian interrogato a riguardo sostiene che l'illecito era stato effettivamente compiuto e architettato dalla dirigenza piacentina; Maccaferri, al contrario, pur ammettendo la tentata frode, afferma di aver agito di propria iniziativa.

Al Piacenza, oltretutto, spetta l’onere della prova: una procedura inusuale nel diritto civile, ma tuttora prevista dalla normativa federale nei casi di illecito sportivo, e che spesso finisce per inchiodare le società accusate sulla base di semplici indizi. Il Piacenza, infatti, non può portare prove della propria estraneità e non può far altro che respingere genericamente le accuse con un duro comunicato: “La Commissione di reggenza del Piacenza F.C. rigetta decisamente ogni e qualsiasi pur minima responsabilità in un fatto che è infondato e ingiurioso. Ripone fiducia nella serenità degli organi inquirenti, e si riserva di agire in sede giudiziaria contro chiunque avesse fatto o facesse dichiarazioni contrarie al vero”. Ciononostante, l’avvocato Edgardo Franzanti ostenta fiducia: “Il portiere dell’undici toscano avrebbe dichiarato pochi giorni prima di essere stato avvicinato da un certo signor Maccaferri, che gli avrebbe offerto il premio di un milione se avesse favorito la vittoria dei piacentini. Non si hanno neppure le prove che questo colloquio sia avvenuto”. In realtà spunteranno poi testimoni dell’incontro, avvenuto effettivamente a Ferrara in occasione di un’amichevole con la SPAL. Prosegue Franzanti: “Ma di più, se anche i due si fossero incontrati e avessero veramente parlato di vendere la partita, chi può dimostrare che il signor Maccaferri abbia agito in nome del Piacenza? Gli inquirenti hanno sostenuto un ragionamento che a me pare troppo semplicistico: il Maccaferri è amico del Gaggiotti, il Gaggiotti ha avuto uno o due colloqui con il presidente del sodalizio piacentino comm. Albonetti (in altra epoca però), quindi il Maccaferri ha agito per conto del sodalizio emiliano. Troppo facile, mi pare”.

 

Il 14 agosto successivo viene emessa la sentenza, dopo una camera di consiglio durata dieci ore. “Dieci ore a volte drammatiche, come nel caso del confronto tra il portiere Barocelli e il presunto corruttore Maccaferri, che al termine della scontro verbale hanno dovuto essere divisi, per evitare che l’interrogatorio avesse uno spiacevole seguito”, scrive l’esperto di storia del Piacenza Giovanni Bottazzini, nell’articolo comparso su “Libertà” in occasione del cinquantennale della vicenda. Dieci ore che decretano la retrocessione del Piacenza in IV serie. Ecco i punti salienti della sentenza:

·         viene deliberato di retrocedere il Piacenza F.C. all’ultimo posto della classifica del campionato di serie C 1955/56;

·         viene inflitta ad Aldo Albonetti, già presidente del Piacenza, l’inibizione a ricoprire cariche sociali o federali per la durata di due anni;

·         viene squalificato a tutto il 30/11/1956 il giocatore Alvaro Zian, per aver trattato il proprio passaggio al Piacenza con il presidente Albonetti, dietro presentazione e alla presenza di Eugenio Gaggiotti;

·         viene inflitta ad Alberto Maccaferri l’inibizione in via definitiva a ricoprire cariche federali o sociali.

 

Il Piacenza ovviamente presenta ricorso alla C.A.F. contro la sentenza, e Franzanti punta il dito contro l’anomala procedura e la tempistica utilizzata nel procedimento di primo grado. Scrive Bottazzini: “Il legale faceva tra l’altro notare che la Lega, con lettera in data 27 luglio all’ex presidente Albonetti e 31 luglio al Piacenza, aveva convocato gli interessati per la mattina del 4 agosto a Milano, cioè la Commissione di controllo aveva trasmesso gli atti della sua inchiesta alla Lega prima ancora di prendere visione del materiale difensivo del Piacenza. Una chiara dimostrazione del fatto che il processo al Piacenza era già stato deciso. Inoltre la Lega non aveva mai posto a diretto confronto il legale biancorosso nè con il portiere Barocelli nè con il presunto corruttore Maccaferri. Per di più al sodalizio emiliano era stata concessa una settimana scarsa di tempo per documentare la propria innocenza, mentre a quell’epoca lo spazio di tempo concesso ad altre società in casi analoghi era stato maggiore”.

 

Anche la sentenza di appello, datata 27 agosto 1956, è sfavorevole al Piacenza. Si fa notare come la società biancorossa non sia riuscita a portare nessun elemento nuovo a proprio favore, e si ribadisce l’assoluta convinzione sull’affidabilità della testimonianza di Barocelli, sulle cui dichiarazioni era stata costruita l’intera vicenda, mentre la condotta di Albonetti e Maccaferri viene definita “reticente e contraddittoria”.

Soprattutto, si fa strada a Piacenza la convinzione di essere rimasti vittime di un oscuro raggiro. Bottazzini conclude così il suo articolo: “Alla vigilia della gara la squadra toscana era già staccatissima in fondo alla graduatoria, senza più alcuna speranza di risalita, mentre assieme al Piacenza erano almeno otto le squadre in lizza per la salvezza. Perchè dunque non pensare che da una di esse possa essere partita l’iniziativa per inguaiare il Piacenza nel finale di stagione, dal momento che il Piombino non aveva proprio più nulla da perdere?”

 

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